AfriChe

 


 

Logo di Tra(N)s-formazioni


Kader Attia, Caos + Riparazione = Universo, 2014
Scultura. Specchi, fili di metallo
Installationsansicht, Sacrifice and Harmony, MMK, Francoforte, 2016
Per gentile concessione dell'artista e Galleria Continua
Foto: Axel Schneider


Kader Attia è nato nel 1970 ed è cresciuto nella periferia di Parigi e in Algeria.
Ha sviluppato una pratica dinamica che riflette sull'estetica e l'etica di culture diverse e interroga il concetto di Riparazione come una costante della natura umana, su cui il mondo occidentale e quello non occidentale hanno sempre avuto visioni opposte.
Lo ringraziamo per averci generosamente concesso di usare Chaos + Repair= Universe come logo di AfricaS, Tra(N)s-formations.


AfricaS, Tra(N)s-formazioni

Presentazione del concorso
A cura di: Livio Boni, Cristiano Rocchi, Daniela Scotto di Fasano 


È nostro obiettivo in questo sito inaugurare, nell'ambito del “Geografie di psicoanalisi”, una finestra dedicata all'Africa, continente sostanzialmente assente dalla 'mappa del mondo' della psicoanalisi e tuttavia sempre più presente nella realtà occidentale nonostante soffra di rappresentazioni riduzionistiche che vanno dalla sopravvivenza compulsiva di un immaginario coloniale a visioni distopiche, nessuna delle quali è in grado di esprimere la complessità della sua realtà.

Non si tratta di prendere la composita realtà africana e di plasmare un oggetto per la psicoanalisi, pur restando condizionati dall'etnografia, ma di lavorare sul significato fantasmatico che è ancora veicolato nel significante 'Africa' e nei suoi derivati. Con questo in mente, mentre continuiamo i nostri sforzi per decostruire gli immaginari costruiti nel corso della storia moderna (segnata da schiavitù e colonizzazione) attorno al "Continente Nero", e prendiamo come modello quello proposto da Edward Said (1978) per l'Oriente e l'orientalismo, vogliamo percorrere diversamente il nostro percorso proposto.

Infatti, piuttosto che mobilitare direttamente la Psicoanalisi per contribuire a creare aperture nel sipario fantasmatico che copre il termine 'Africa', vorremmo avviare un dialogo,  più psicanalitico, con una serie di voci africane – letterarie, artistiche, filosofiche, antropologiche, mediche, storiche, ecc. – che, pur non appartenendo al campo psicoanalitico – essendo la psicoanalisi praticamente assente dal continente, salvo poche eccezioni, come il Maghreb , Senegal o Sud Africa – intercetta utilmente una serie di domande udibili con la Psicoanalisi. Ne ricordiamo alcuni, senza essere esaustivi:

  • La convivenza, nel continente africano, di a molteplicità di regimi storici, che vanno dal più antico al più postmoderno, che rende impossibile ridurre lo spazio africano a una temporalità storica univoca, e ripropone la questione freudiana della convivenza tra più regimi di temporalità, nella vita dell'individuo tanto a partire dal collettivo (FARR, 2021)
  • L'interiorizzazione dei modelli ereditati di dominazione coloniale, sia a livello di comportamento delle classi dirigenti africane, sia a livello di volontà collettiva di costruire Stati nazione omogeneizzati, culturalmente unitari, basati sul modello delle nazioni europee, e le ripercussioni patologiche di tale introiezione (MBEMBE, 2016)
  • Ma parallelamente a tale inconfutabile persistenza e perversione dei modelli importati di dominazione coloniale (BONI, 2018), è possibile osservare decisamente trasformazioni e contaminazioni postcoloniali, ad esempio la diffusa infiltrazione di logiche legate alla stregoneria (possesso, magia, malocchio, feticismo, ecc.) al centro del funzionamento degli Stati, in particolare nell'Africa centrale e occidentale e, più in generale, la sua condensazione attraverso la saggezza "tradizionale" e le moderne tecnologie politiche (TONDA, 2021) .


Sarà nostro compito organizzare un discorso che sia arricchito dalle voci di esperti che hanno intrapreso una riflessione dedicata su questi temi. Cercheremo contemporaneamente di comprendere l'elaborazione 'relativa' - in quanto specifica e contestuale - del postcolonialismo.

Il riferimento al paradigma postcoloniale come paradigma critico, articolabile con lo studio psicoanalitico, è quindi da intendersi come un dinamico riferimento epistemico, da dispiegare nel tentativo di tener conto delle “trasformazioni” in atto nel continente africano, per capire se queste possano essere considerate unicamente come trasmutazioni nelle stesse categorie importate dalla modernità coloniale, o come loro ibridazione con indigeni categoria riemergendo dalla 'notte coloniale'.

Come in ogni seria fase di ricognizione preliminare, abbiamo ritenuto utili alcune piste da seguire. Per cominciare, cercheremo di capire meglio ciò che è noto come 'postcolonialismo'; e mentre pensavamo a come orientarci sui binari su cui di conseguenza tanti si ritrovano nel continente africano, abbiamo deciso di ricorrere a… una bussola.

In Psicoanalisi abbiamo un concetto, quello di Nachträglichkeit, che può essere tradotto in inglese come azione differita, e che è meglio tradotto in francese come 'dopo', che qui sembra servire allo scopo in quanto conduce improvvisamente nel mondo del 'posto' e può senza dubbio costituire un aiuto per situarci. Seguendo questo Strumento-concetto, possiamo provare a ripensare lo statuto della temporalità e della causalità psichica 'diversa' dalla soggettività dei singoli individui; avanzando dunque, anche con l'ausilio di questa bussola psicoanalitica, nei campi dei macrogruppi.

Come nel titolo della finestra, vorremmo occuparci del tra(N)s-formazioni che sono avvenuti e che stanno accadendo in Africa.

Il riferimento al paradigma postcoloniale come paradigma critico, articolabile con un approccio psicoanalitico e che va quindi inteso come dinamico riferimento epistemico, volto al tentativo di raccogliere le “tra(N)s-formazioni” in atto nel continente africano, per capire se queste possono essere intese come trasmutazioni dello stesso categoria importati dalla modernità coloniale: quelli di territorio, Stato, confine, etnia, genocidio, Riconciliazione, ecc.

Una volta che abbiamo stabilito queste premesse sulla direzione generale della finestra "AfricaS" all'interno della Geografia della psicoanalisi (PRETA, 2016), tracciamo ora delle linee sul metodo e sui materiali che speriamo di includere qui e di essere di ispirazione per i contributori.

Soggettivare, più che oggettivare: la finestra proporrà analisi e riflessioni provenienti da l'interno dello spazio africanoe, e non da una prospettiva sull'Africa, proveniente dalle scienze umane o sociali o da “studi africani”. Desideriamo, infatti; dare un posto d'onore alle interpretazioni di questo continente creolo, l'Africa, nelle sue stesse parole (Scego, 2021), attualmente sottorappresentato nell'economia della conoscenza.

Attraverso il concetto di Afropeans (PITTS, 2019), che designa l'identità di africani saldamente radicati in Europa, o quella di Afropolitans, autori che pubblicano e vivono in Occidente, attraverso l'attuale urgenza della questione razziale, ma anche attraverso il possibilità di rimanere sorpresi da domande inaspettate, la finestra cercherà di cercare di rimanere il più fedele possibile all'obiettivo di vedere l'Africa attraverso gli occhi di chi la abita (PIAGGIO, 2021). Al centro dei nostri interessi la questione della razza; della razzializzazione e del razzismo come recentemente rivisitate in Psicoanalisi (BONI-MENDELSOHN, 2021; HOOK-GEORGE, 2021), per ripensare le categorie ereditate dal tradizionale antirazzismo del dopoguerra. Cercheremo, quindi, di rivisitare la questione razziale cercando di articolarla con le categorie di "genere" e "classe", come categoria non intrinsecamente discriminatoria ma suscettibile di racchiudere momenti trasformativi, ibridazioni e richieste, come esplorato anche nella finestra Razzismo, inserita anche nel sito “Geografia della psicoanalisi”. Ci auguriamo quindi che in 'AfricaS' si possano cercare di comprendere le diverse modalità e forme di integrazione nel Sé delle esperienze di colonizzazione e della possibile opera di (de)colonizzazione. Ad esempio la perdita di identità dei popoli africani (basti pensare al significato; non solo simbolico, alle deformazioni dei confini e dei nomi degli stati), che ripensiamo, anche alla luce della particolare corrente in atto, come un'identità: una sorta di 'trans-genere etnico'. Oppure, come nelle parole di Achille Mbembe, la rappresentazione prefetta di AfricaS e quella di essere sempre plasmati dalla mobilità?

Per un'antropologia inversa: come vedono l'Africa l'Europa e, più in generale, l'Occidente? E in che modo un simile cambio di prospettiva potrebbe contribuire alla nostra autorappresentazione? Attraverso l'incoraggiamento di una certa "antropologia inversa", che una serie di scrittori africani praticano già dagli anni Cinquanta (DADIE, 1959), focalizzeremo il nostro interesse sulla visione africana, o euroafricana, dell'ex colonia metropoli – Parigi, Londra, Roma o Lisbona, e, più in generale, sulle città europee particolarmente influenzate dalla storia coloniale, dove l'influenza coloniale si è fatta sentire particolarmente nello spazio urbano, monumentale-artistico e toponomastico dell'Europa città (SCEGO, 2014 WU MING, 2018).

Nell'aprire tale finestra, siamo consapevoli del fatto che una varietà di correnti e discipline - come l'etnopsichiatria, i movimenti per la decolonizzazione di quelle che spesso vengono definite arti "primitive", per non parlare della letteratura o di vari rami del "popolare “cultura – sono già attivamente impegnati in uno sforzo fecondissimo di confronto con i diversi 'africanismi'. In AfricaS - Trasformazioni intendiamo, invece, intraprendere questo cammino partendo da sponde diverse, quelle della Psicoanalisi, che ci sembra aver accumulato un certo ritardo in un tale movimento di apertura ad altre forme di conoscenza e pratiche discorsive .

Il focus della finestra sarà quindi il tentativo di capire nella variegata superficie dell'Africa se, quando e come è arrivata la Psicoanalisi e come è entrata in relazione con la realtà culturale e sociale del luogo, o se, in ogni caso e anche così, mappare le diverse modalità in cui sono stati elaborati i processi coloniali e postcoloniali. L'Africa è stata infatti caratterizzata, nel tempo, da una diffusione discontinua e frammentaria della Psicoanalisi, come nel patchwork: in Sud Africa con Mark Solms, e, Suzannz Maiello, dell'AIPPI, che vi ha condotto una preziosa Osservazione infantile; in Senegal, sempre con Infant Observation, all'opera di Rosella Sandri con l'AIDOBB; in Tunisia con Fethi Benslama; ad Alessandria, alla fine della seconda guerra mondiale, città da cui provenivano alcuni noti analisti francofoni come Moustapha Safouan, Sami Ali; Tobie Nathan, Jacques Hassoun. Non sarà possibile non interessarci a una migliore mappatura e comprensione di tale divenire.


Bibliografia
BONI Livio, L'inconscio postcoloniale. Geopolitica della pcicoanalisi, Milano, Mimesi, 2018.
BONI Livio, MENDELSOHN Sofia, La vie psychique du racisme (1): l'empire du démenti, Parigi, La Découverte, 2021.
DADIÉ Bernard, Un Negre a Parigi, Parigi, Presenza africana, 1959.
HOOK Derek, GEORGE Sheldon (a cura di), Lacan e Race. Razzismo, identità e teoria psicoanalitica, Londra-New York, Routledge, 2021
MBEMBE' Achille, «Necropolitica»,Cultura pubblica,vol.15, n. 1,‎ 2003.
PIAGGIO Chiara, Introduzione, in PIAGGIO Chiara, SCEGO Igiaba, a cura di, Africano. Raccontare il Continente al di là degli stereotipi, Milano, Feltrinelli, 2021
PITTS Johnny, afropea. Appunti dall'Europa nera, Londra, Penguin, 2019.
PRETA Lorena (dir.), Cartografie dell'incnscio. Un nuovo Atlantico per la Psicoanalisi, Milano, Mimesi, 2016.
DETTO Edoardo, orientalismo, Libri del Pantheon, 1978.
SARR Felvino, afrotopia, Parigi, Philippe Rey, 2016.
SCEGO Igiaba (in collaborazione con Rino Bianchi), Rom negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma, Edesse, 2014.
SCEGO Igiaba, L'Africa è un continente, in PIAGGIO Chiara, SCEGO Igiaba, a cura di, Africana. Raccontare il Continente al di là degli stereotipi, Milano, Feltrinelli, 2021
TONDA Giuseppe, Afrodistopia. La vie dans le rêve d'Autrui, Parigi, Karthala, 2021.
WU MING (Collettivo), “I fantasmi coloniali infestano le nostre città, 2018, consultabile in Rete https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/10/viva-menilicchi-4/


interviste


Intervista a Padre Mosè per l'Eritrea
Di Cristiano Rocchi

Cristiano Rocchi: 

Abbiamo questa "finestra" in Geografie della psicoanalisi che, come sapete, cerca di tracciare una mappa della psiche basata sulle interconnessioni e interazioni generate da culture anche lontane dall'origine psicoanalitica, esplorando questioni complesse che trovano espressione diversa nelle varie realtà, così da dare una panoramica della psicoanalisi e delle tematiche psicoanalitiche. Ora, penso che sarebbe giusto descriverti come "uomo d'azione", quindi quanto ritieni utile e importante il pensiero per supportare la realizzazione e il nutrimento di eventuali trasformazioni?  

Padre Mosè: 
È importante, aiuta anche noi africani a riflettere su noi stessi; dove siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare e quale futuro vogliamo per la nostra Africa e per i nostri giovani; pensare al futuro e a ciò che è stato finora. Almeno, quale aspetto del passato vale o non vale la pena preservare; cosa dovrebbe essere conservato e cosa invece ci è stato inutile o addirittura dannoso; in altre parole, invece di aiutarci ad andare avanti, ciò che ci ha tenuti fermi o addirittura ci ha fatto tornare indietro. Quindi, secondo me, è utile riflettere su ogni aspetto e da ogni possibile angolazione che ci può essere d'aiuto. Per me, ogni riflessione che sorge, indipendentemente dalla sua origine o natura, rappresenta uno stimolo utile e convincente all'azione.  

Cristiano Rocchi: 
Bene, questo è molto interessante e sono felice di sentirlo. Perché sai, a volte può sembrare che ci sia un divario troppo ampio tra il fare e il pensare a certe cose. Così, a volte, anch'io mi chiedo fino a che punto sia possibile creare un ponte reale e significativo tra pensiero e azione.

Padre Mosè:

Bene, chi lo sa? Ma quello che trovo estremamente dannoso, e non solo per noi africani, è il fatto che l'accento è stato posto soprattutto sul fare e non sul pensare. Perché, se non continuiamo ad espandere il pensiero, il fare finirà per ripiegarsi su se stesso e si correrà il rischio di ripetere gli errori del passato. Ma se c'è un processo di pensiero, maturato sotto diversi punti di vista, attorno a tutti gli aspetti della vita dell'uomo e della donna, allora il pensiero aiuta a creare nuovi percorsi e orizzonti per inquadrare l'azione. Fare dovrebbe essere la traduzione del pensiero, non il contrario.

Cristiano Rocchi: 

Si, certo. Quindi, un intreccio tra modus operandi e cogitandi. 

Padre Mosè:

Ebbene sì, sì.

Cristiano Rocchi: 

Una domanda più generale che devo porvi è questa: diversi studiosi hanno osservato che i moderni paesi postcoloniali possono finire per assomigliare a una seconda copia di un grande paese europeo e diventare così un terreno ideale per realizzare i suoi obiettivi economici, sociali e culturali. Questa è un'affermazione fatta da uno studioso come Chatterjee. Cosa ne pensi? Come interpreteresti un'affermazione del genere? In che misura condividi questo punto di vista?

Padre Mosè: 
Ebbene, sono sostanzialmente d'accordo con esso. Questo è stato il caso in molte parti dell'Africa. Gli stati moderni stabiliti dopo l'indipendenza hanno avuto un'indipendenza fisica ma non politica, culturale o economica. Il sistema complessivo è ancora precoloniale, con ciò intendo il sistema messo in atto dai colonizzatori; infatti i nuovi governatori o la cosiddetta classe intellettuale di questi paesi furono educati o nelle colonie o nei paesi colonizzatori, perché i colonizzati andarono in Francia, Gran Bretagna o altrove, dove si familiarizzarono con il sistema europeo. Perciò al loro arrivo stavano “portando” anziché “cercare”, a differenza dei missionari; si sa, i Papi, o almeno alcuni di loro, direbbero: "Devi inculturare il Vangelo. Non devi semplicemente trasportare il modello latino così com'è; devi inculturarlo nel..."

Ciò non è stato fatto all'interno dei regni politico ed economico dei paesi che erano nuovi o finalmente liberati dal colonialismo. Hanno mantenuto sia il sistema politico che quello economico del paese colonizzatore e hanno cercato di imitare, assimilare o assomigliare all'Occidente e all'Europa per quanto potevano, dimenticando le proprie radici, con ciò intendo la propria cultura, tradizioni e mentalità e tutto degli usi e costumi che servirebbero a costruire un nuovo modello economico, politico ed educativo.

Anche le nostre scuole ei loro curricula seguono un modello di stampo europeo. In molti paesi africani si studia la storia europea mentre l'insegnamento della storia africana è assente. I giovani dei paesi francofoni conoscono l'intera storia della Francia, ma non la cultura del proprio paese. In questo senso è andata avanti, è colonialismo in tempo reale, a distanza oa distanza; una forma culturale, economica e politica di colonialismo. È vero che potrebbero non esserci più governanti o governatori europei in persona, ma è ancora il loro linguaggio e i loro modelli politico-economici a governare. 

Cristiano Rocchi: 
Vedo, beh, innegabilmente ci devono essere alcuni fattori economici sottostanti a questo, ma mi chiedo se tu e io potremmo esplorare la questione da una prospettiva psicoanalitica (che interessa molto me e noi); posso chiederti perché, dal tuo punto di vista, questa... chiamiamola psiche africana collettiva è stata così infiltrata dalla psiche occidentale?

Padre Mosè: 
Perché per secoli agli africani è stato detto: "Sei emancipato, sei sviluppato, sei... se vivi in ​​Occidente, se adotti stili di abbigliamento occidentali, se puoi citare filosofi occidentali o imparare a memoria ..."

Quindi, c'è lo sforzo che il popolo africano ha fatto per essere occidentale. Come sacerdote, ne vedo l'aspetto religioso, nel loro modo di essere cattolico o anglicano. In Africa, le persone partecipano alla messa ogni domenica, ma poi se ne vanno e compiono i loro riti e rituali tradizionali. Quindi, il fatto di essere in chiesa, vestito con abiti all'occidentale, è dire: "Vedi, anch'io ho raggiunto il tuo livello, sono diventato come te, mi sono finalmente emancipato, sono sviluppato, sono moderno, non sono più arcaico e così via. Ma mi attengo ancora alle mie radici praticando i miei riti e rituali, proprio come facevano i miei antenati".

Quindi c'è questo aspetto duraturo, ma resta il fatto che sul piano filosofico, ma anche su vari aspetti del livello culturale, gli africani hanno preferito cercare o rincorrere l'Occidente perché questo è il modello di successo che è stato presentato a loro. 

Cristiano Rocchi: 
Quindi, in questo senso si potrebbe parlare di una sorta di spaccatura all'interno del popolo africano, all'interno della psiche del popolo africano; per cui hai questa parte superiore, superficiale, che aderisce al modello a cui tendono o al quale hanno dovuto tendere; e un'interiorità più legata a un certo tipo di cultura e tradizioni millenarie.

Padre Mosè:
Sì, c'è una divisione. Questo è chiaro anche se consideriamo la differenza tra le persone che vivono nelle città e le persone che vivono nei villaggi. Ad esempio, le tradizioni ancestrali sono state maggiormente conservate nelle zone rurali. Nelle città è tutto diverso perché per secoli la cultura africana è stata demonizzata come arcaica, come..., agli africani è stato spesso detto: "Tutto questo è diabolico" o ogni sorta di cose spiacevoli, al punto da vergognarsi della propria cultura, delle proprie tradizioni, dei propri usi e costumi. Quindi, le persone che vengono in città cercano di liberarsi di tutto, senza riuscirci pienamente a causa del legame duraturo con la famiglia, ma chi si trasferisce in città cerca di seguire o rincorrere il modello occidentale, per dire: “ Sono liberato, sono civilizzato, sono modernizzato, ... ho fatto progressi, quindi ... "
Perché è il modello che è stato loro proposto come modello vincente: "siamo civili, e in realtà siamo venuti per civilizzarvi", quindi...

Cristiano Rocchi: 
Per liberarti.

Padre Mosè:
Per liberarti, per civilizzarti, perché...
Quindi, è comprensibile; chiunque vorrebbe salire sul carro vincente, anche il popolo africano vuole salire a bordo.  

Cristiano Rocchi: 

Guarda, ci sono studi, forse discutibilmente controversi, che descrivono processi culturali di ibridazione tra colonizzati e colonizzatori che alcuni considerano terreno fertile. Secondo te, questo tipo di considerazione è accettabile? Se sì, allora dove, quando e in che misura?

Padre Mosè: 

Bene, è qualcosa che puoi vedere in diversi paesi. L'ibridazione non è solo culturale, ora ci sono anche famiglie interrazziali, quindi anche questa ibridazione culturale nasce da lì. Lo vedi succedere a Capo Verde, per esempio, o nelle Isole Mauritius.

Cristiano Rocchi: 
A Zanzibar.

Padre Mosè: 

E in Tanzania, per esempio, e in... sì, ci sono questi provini, diciamo che non sono stati programmati intorno al tavolo ma sono nati gradualmente attraverso i matrimoni misti, anche se la convivenza è forzata o volontario. Prendiamo ad esempio gli indiani, che arrivarono come soldati inglesi e poi vi si stabilirono; ora sono parte integrante della società. Quindi, hanno portato la loro religione, la loro cultura e se ora vai a Mauritius, o anche a Zanzibar come hai detto, scoprirai che sono parte integrante della società. Potresti trovare, ad esempio, un marito tanzaniano di origine africana con una moglie di origine indiana. Nella stessa famiglia, l'induismo può coesistere con il cattolicesimo, il protestantesimo o l'anglicanesimo. Ed è in questo contesto che sorgono nuovi modi di vivere, pensare e relazionarsi con la società. Non è né completamente africano né completamente indiano. Quindi, questa è la cultura ibrida che emerge da questo contesto.

Cristiano Rocchi: 

Ora la prossima domanda che devo farti è più vicina alle concettualizzazioni psicoanalitiche. C'è un concetto (molto caro a noi psicoanalisti), conosciuto come Nachträglichkeit in tedesco, azione differita in inglese, e après-coup in francese. Questo concetto si riferisce sostanzialmente a un tipo di processo che potremmo chiamare ritorno postumo o retroazione; Cercherò di spiegarlo in modo molto semplice, forse un po' riduttivo: si verifica un evento traumatico, dopo il quale c'è un periodo di latenza, come se l'evento non fosse mai accaduto... o non fosse stato riconosciuto. Poi, in seguito, se ne verifica un'altra, anche anni dopo, che risveglia (azione retroattiva) quanto accaduto a livello psichico. E possiamo parlare sia della psiche individuale che di quella collettiva.

Quindi, abbiamo pensato a questo concetto e poi a un post che facesse riferimento a un evento successivo... e cioè questo post, che si riferisse a un effetto successivo, abbiamo anche provato a pensarlo in relazione a dinamiche postcoloniali. Lascia che ti dia una citazione. Uno psicoanalista francese - il concetto è stato ampiamente ripreso dai francesi sulla scia di Freud e tradotto in francese come après-coup - dice J. André: “L'après-coup è un trauma e se non è mera ripetizione è perché contiene elementi di significazione che aprono, finché c'è un ascolto e un'interpretazione, una trasformazione del passato. Apre una trasformazione del passato”. Quindi, dopo questa breve descrizione del significato essenziale di questo concetto, vorrei chiederti: può essere utile, secondo te, utilizzare questo concetto per pensare al postcolonialismo? Voglio dire, ragionando anche in termini politici, geografici ed economici, come potrebbe il concetto informare il nostro ascolto e comprensione delle dinamiche odierne e della fenomenologia che possiamo osservare nelle varie regioni che sono state colonizzate? 
In altre parole, quale eventuale uso potremmo farne? 

Padre Mosè: 
Ebbene, bisognerebbe analizzare come viene vissuta la vita paese per paese. Bisognerebbe guardare un paese alla volta. Perché la situazione africana che abbiamo oggi è così diversificata a causa di tutta una serie di situazioni, siano esse politiche, economiche o altro. Ma prendiamo l'esempio del Ghana. Oggi il Ghana è un Paese che sta cercando di scrollarsi di dosso le “catene” che lo legano a un passato di dominio coloniale. Pertanto, sta cercando di riaffermare la sua piena indipendenza economica e culturale; sta fornendo numerosi stimoli, in particolare nell'ambito della cultura, del pensiero e dello sviluppo, per recuperare la propria storia e le proprie tradizioni guardando al futuro. Quindi, il Ghana potrebbe essere uno dei paesi da studiare per comprendere queste esperienze.

Cristiano Rocchi: 

Quindi, una sorta di laboratorio secondo voi?

Padre Mosè: 

Sì, per me sì. È un laboratorio che si rivolge anche a molti altri, ad esempio il continuo appello che rivolge agli afroamericani a rinnovare gli sforzi per il recupero della storia, della cultura, degli usi e dei costumi dell'Africa nera, quelli risalenti all'epoca coloniale volte e ancora più indietro nel tempo alla tratta degli schiavi. Quindi, sta cercando di tornare indietro di tre o quattrocento anni per recuperare la sua identità storico-culturale e adattarla al presente. Quindi, da una parte, riscoprire pienamente se stessa e il popolo africano. Non era una tabula rasa prima del colonialismo; aveva una sua cultura, tradizioni e storia. Così come si parla dei vari sovrani dell'Europa occidentale, ricordiamoci che c'erano re e regine dell'Africa, dell'Africa nera, che furono anche potenti e ricchi artefici della storia. Quindi, con l'aiuto di molti scrittori, sceneggiatori e registi, il Ghana sta cercando di recuperare tutto questo.

Per me il Ghana è un esempio forte, ma poi dall'altra parte ci sono paesi che sembrano indietreggiare; forse ciò è dovuto anche al loro essere lacerati da una situazione interna di disgregazione a livello politico-culturale, che rende difficile per loro lavorare e fare passi avanti.

Guarda la Somalia, guarda quasi tutto il Corno d'Africa: oggi è impantanato in un pantano; si è chiusa in se stessa, come l'Eritrea che si è chiusa in se stessa e vede l'Occidente come un nemico assoluto o, comunque, lo guarda con sospetto. Quindi, cerca di isolarsi, senza fare passi avanti né a livello di pensiero né a livello di crescita economica… o altro… è uno stato congelato che non aiuta né il Paese né le persone.

Dall'altra c'è la Somalia che è stata dilaniata dall'intera situazione economica, anche se ora ci sono piccoli segnali di cambiamento interno. Anche in Somaliland si intravede un timido passo verso lo sviluppo, sotto tutti i punti di vista, sia politico che economico. Allo stesso tempo, si stanno perdendo le aspettative precedentemente ritenute per il Sud Africa; Il Sud Africa doveva essere il laboratorio per eccellenza, ma purtroppo negli ultimi anni sembra essersi un po' paralizzato. Ora quello sarebbe stato il terreno ideale, dopo il processo di riconciliazione e tutto il lavoro svolto con Mandela per superare le divisioni. È lì che è stato vissuto il trauma del colonialismo e dell'apartheid; avrebbe dovuto portare a un nuovo modello oa ciò di cui abbiamo parlato prima: una nuova cultura ibrida, nata dall'unione di africani e bianchi che erano ormai parte integrante della società; ma la crisi economica ha rallentato ogni tentativo di forgiare l'unità nazionale, ogni tentativo di creare l'unità culturale; al contrario, negli ultimi anni sono esplose tensioni interne in violenti attacchi ai migranti appena arrivati, che hanno provocato decine di morti. Alcuni sostengono che l'intera economia è ancora nelle mani dei bianchi, quindi mentre in realtà non c'è l'apartheid politico, c'è l'apartheid economico.

Tutto ciò non ha aiutato il Sudafrica di oggi a compiere i passi necessari per elaborare i traumi del passato e non ha consentito alla popolazione di andare avanti come sperava anche Mandela. La sua speranza era che il processo di riconciliazione, di cui era un sostenitore, voltasse una nuova pagina nella storia della convivenza e accogliesse una cultura ibrida sudafricana, cosa che non è stata ancora raggiunta.

Cristiano Rocchi: 
Capisco che non ci sia una risposta facile a questo, ma a questo punto vorrei chiederti; quando si parla di “traumi comparabili”, come mai ci sono alcune aree dove le risposte sono... o meglio riflettono (forse) una maggiore elaborazione del trauma stesso, mentre in altre aree questo non sembra accadere? ad esempio, confrontiamo il Ghana e il Corno d'Africa.Poco ora hai citato il Ghana come un Paese dove l'elaborazione del trauma sembra avere più successo e dove di conseguenza si può osservare la capacità di ricercare e recuperare certi valori di un lontano passato, ad esempio . 

Padre Mosè: 

È dovuto all'instabilità politica. Fortunatamente per il Ghana, ha avuto un certo grado di stabilità politica negli ultimi 40 anni, stabilità politica che gli ha permesso almeno di iniziare a lavorare nel corso della sua storia. Il Corno d'Africa ha continuato a saltare dalla padella nel fuoco, da una dittatura all'altra, da un conflitto all'altro e quindi molte figure dello strato intellettuale del Corno d'Africa sono morte in guerra o in carcere oppure scappato a vivere all'estero così...
 
Prendi l'Etiopia... fu occupata dall'Italia per soli cinque anni, perché l'occupazione italiana durò dal 1935 al 1940-41; fu di breve durata e l'unica vera occupazione dell'Etiopia. Di tutti i paesi del Corno d'Africa, è il meno traumatizzato, il paese che ha più conservato la sua storia e le sue tradizioni. Ha, tuttavia, subito molti altri traumi dovuti a guerre e dittature successive. Ciò ha comportato un tale tributo mentale, fisico ed economico che l'Etiopia non è stata in grado di impegnarsi nel processo di autoriflessione ed emancipazione. 

Dopo aver ottenuto l'indipendenza nel 1960, la Somalia cadde sotto una dittatura che non pensava a investimenti sul piano culturale o di recupero, e non aveva l'obiettivo di emancipare il pensiero e tanto meno nient'altro; pensava di più a fare guerre. Quando mandi i tuoi giovani in guerra, quando sono loro quelli su cui investire e quelli che possono favorire lo sviluppo sia culturale che economico, allora paralizzi ogni tentativo di crescita e di cambiamento. Siad Barré non ha fatto altro che fare la guerra, con l'Etiopia e altri paesi vicini. Il suo governo durò 17 anni, ma quelli furono 17 anni di guerra.

Cristiano Rocchi: 
Ebbene Padre Mosé, vorrei farle quest'ultima domanda: seguendo quella linea di pensiero denominata antropologia inversa, adottata da vari autori africani a partire dagli anni '1930, posso chiederle del modo in cui l'Africa vede l'Europa?

Padre Mosè: 
Oggi, ci sono vari scrittori africani che hanno smesso di cercare di trovare un capro espiatorio per i guai dell'Africa, voglio dire, cercando di attribuire la colpa all'esterno... certo, la colpa può essere attribuita a un periodo particolare come il periodo coloniale, tra gli altri, ma fortunatamente, oggi, ci sono alcuni scrittori, intellettuali, che stanno cercando di aiutare l'Africa a scrollarsi di dosso il colonialismo. Li stanno aiutando a guardare a se stessi come sono oggi ea guardare alla propria classe dirigente, alla propria capacità di comprendere la situazione in cui stanno vivendo, come stanno vivendo, e quindi anche il ruolo attivo che stanno giocando in questo contesto attuale, non piangere solo per quello che è successo 60 o 70 anni fa.

Oggi ci sono scrittori, intellettuali, registi e persino comici che eccellono in questo. Ad esempio, sto lavorando con alcuni giovani attori di teatro che stanno aiutando a rendere gli africani consapevoli di chi sono, cosa vogliono essere e dove vogliono andare. Quindi, li stanno spingendo insieme al messaggio: “Oggi sei responsabile di ciò che ti sta accadendo, di ciò che stai vivendo. Non limitarti a piangere per il passato, guarda chi ti sta governando oggi, da dove viene, come è arrivato dov'è e quale contributo hai dato al suo essere in quel posto oggi.

Per fortuna ci sono giovani intellettuali che stanno cercando di andare oltre la fase di incolpare l'uomo bianco che ha occupato, rubato e sfruttato... Stanno anche intraprendendo un processo di recupero, partendo dalle tradizioni. Alcuni di loro dicono: beh, che dire dei nostri bisnonni e dei nostri trisnonni, come hanno affrontato i problemi? Come hanno risolto i conflitti? Come...? 

Quindi, stanno tornando alle loro radici; per esempio, stanno pensando a come i loro antenati hanno risolto i loro conflitti per terra, bestiame, matrimoni e denaro seduti insieme sotto un albero, e quindi potrebbero suggerire: beh, riportiamo le abitudini dei nostri nonni; la capacità di dialogo, la capacità di giustizia, il modo in cui è stata amministrata; non in tribunale ma dall'assemblea del villaggio; come venivano aiutate le vedove? 

Come sono stati aiutati gli orfani? Dal villaggio. Prima che l'uomo bianco arrivasse e costruisse orfanotrofi o altri tipi di strutture che avevano così poco a che fare con il contesto africano. Recuperando quella storia, quelle storie, quel modo di fare, riportandolo tutto al presente, questi giovani intellettuali dicono: guardate, anche noi avevamo il nostro modo di fare giustizia, anche noi avevamo il nostro modo di risolvere i conflitti e abbiamo avuto una grande capacità di dialogare, di ascoltare. Allora, recuperiamo tutto questo. Portiamolo ai giorni nostri per affrontare i problemi che stiamo affrontando ora. 

Cristiano Rocchi: 

Sì, in termini psicoanalitici, sarebbe una sorta di tentativo di elaborare il trauma.

Padre Mosè:
Ok. Sì, sì, è un modo di elaborare il trauma; perché quel trauma ha interrotto quello che avrebbe potuto essere il naturale sviluppo di quei costumi, cultura e pratiche, che alla fine avrebbero portato a leggi scritte e alla legge come la intendiamo noi. Sfortunatamente, tuttavia, queste pratiche e questi approcci alla convivenza sono stati in gran parte solo tramandati oralmente dai nonni ai nipoti, ai figli e alle figlie, c'è poco per iscritto e questo include il campo legale. Ad esempio, l'Etiopia ha avuto il Fetha Nagast, tradotto in un gran numero di lingue diverse, che è stato, per secoli, il libro delle leggi dei vari governanti che sono succeduti al trono dell'Etiopia fino agli anni '1960. Fortunatamente, è stato scritto. È iniziato come una piccola raccolta di articoli, ma a poco a poco ogni sovrano successivo ha aggiunto qualcosa ad essa. Così, alla fine è diventato un volume abbastanza consistente e di vasta portata che ha affrontato ogni aspetto della vita e della società, dalla religione ai matrimoni. 

Cristiano Rocchi: 
Di quale epoca stiamo parlando?

Padre Mosè: 
Se non erro, è nato nel XV secolo ed è stato in uso fino all'ultimo imperatore, il governo di Haile Selassie è terminato nel 1974. Il testo è stato tradotto, lo puoi trovare anche in inglese.

Cristiano Rocchi: 
Ora, lei ha detto che si rivolgeva anche alla dimensione religiosa della vita.

Padre Mosè: 
Si si. Si occupava di questioni religiose, sociali e politiche. In origine, infatti, si trattava di diritto religioso perché, all'epoca, il re era anche sacerdote.

Cristiano Rocchi: 
Che religione era quella?

Padre Mosè: 
Cristiano ortodosso

Cristiano Rocchi: 
Bene, Padre Mosé, grazie mille per il tuo tempo e spero che potremo rivederci presto e forse anche di persona.

Padre Mosè: 
Thank you. 
Biografia:
Mussie Zerai (Asmara, 1975), noto come Padre Moses
, cresce con la nonna ei suoi sette fratelli dopo la prematura scomparsa della madre, quando Zerai aveva quattro anni, mentre il padre lasciava il paese per rifugiarsi in Italia. 

Nel 1992, all'età di 17 anni, Mussie fuggì anche in Italia, dove chiese asilo politico e ottenne il permesso di soggiorno, lavorando al mercato contadino di Roma, poi come giornalaio ambulante, e infine come receptionist in una Clinica. mentre studia e si laurea prima in filosofia e poi in teologia.

Il 10 marzo 2004 riceve la prima telefonata di SOS dal mare e, nel 2006, fonda a Roma l'ente no profit Habeshia (di cui è il presidente), il cui nome in arabo significa meticcio, poiché è convinto che l'identità in Eritrea sia meticcia. 
Grazie ad Habeshia l'assistenza ai migranti e agli emarginati è diventata più sistematica, nella convinzione che “non può esserci pace senza giustizia, non può esserci pace senza diritti”. Da allora il suo numero continua ad essere scritto sulle magliette, sui muri delle navi e nelle carceri, persone che lo chiamano dai lager libici, dalle prigioni egiziane o dai campi profughi in Sudan.
 
È stato ordinato sacerdote nel 2010, prendendo a modello quello di Giovanni Battista Scalabrini, beatificato nel 1997 con il titolo di Padre dei Migranti.
 
Mussie Zerai - nominato per il Premio Nobel per la Pace nel 2015 e inserito dalla rivista Time tra le 100 personalità più influenti del 2016 nella categoria 'Pioneers' - risponde sempre alle chiamate. È infatti conosciuto come “il cellulare del Mediterraneo”.

Nel 2016 ha proposto al presidente del Consiglio Matteo Renzi, e ai presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, di riunire le sepolture di tutte le vittime della strage del 3 ottobre 2013 (un tragedia che, come ha detto, fa 'piangere l'anima') in un unico luogo per, ha detto: "Fallo riposare insieme, come insieme sono morti e come insieme - fino a quella tragica alba - hanno accarezzato l'idea di una vita libera e dignitosa. Questo creerebbe un piccolo santuario dell'immigrazione, dove potremmo pregare, portare un fiore e riflettere. Lo dobbiamo a loro per pietà umana. Non ho mai ricevuto risposta».

Nel 2016 il sindaco Walter Veltroni, con l'aiuto di un gruppo di esperti, ha elaborato un progetto secondo il quale Palazzo Selam a Roma sarebbe diventato un centro autogestito e parte di un più ampio piano di inclusione e integrazione sociale, con l'obiettivo di creando un modello romano di ospitalità, da esportare altrove. Questo progetto è stato davvero infruttuoso.

Nel 2017 ha pubblicato, con Giuseppe Carrisi, Padre Mosè (Giunti), un libro sulla sua vita, in cui illustra i quattro punti chiave che gli sono necessari per fondare un sistema di immigrazione legale (pp.214 e segg.).  

Intervista a Kaha Mohamed Aden per la Somalia
Domanda 1 
1) Come descrivere il Corno d'Africa in relazione alle 'amnesie e rimozioni' dei governi e degli stati che lo hanno occupato?


L'amnesia e l'allontanamento dei colonizzatori sono aspetti cruciali per la storiografia contemporanea, in quanto riguardano sia le politiche interne (come il dibattito politico su come affrontare temi di attualità come l'immigrazione o i diritti culturali) sia la necessità di costruire una nuova identità, libera da l'oppressione e le responsabilità del primato dispotico degli ex governi coloniali. Per non assoggettarmi ancora una volta alla centralità dei paesi coloniali, focalizzo la mia attenzione su ciò che i somali "hanno combinato" e su ciò che il resto del mondo, che non coincide strettamente con i paesi che hanno occupato il Corno d'Africa, permise all'Italia di fare, dimenticando e così sacrificando le richieste di libertà e indipendenza dei Somali per premiare l'Italia che, all'ultimo momento, si alleò con i vincitori della seconda guerra mondiale.

“Era un periodo particolare per la Somalia. Il mondo intero (si fa per dire) ha ritenuto giusto che l'Italia, nazione colonizzatrice, introducesse la Somalia nel processo di democrazia. Questa idea 'nata' dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sarebbe durata dal 1950 al 1960 ed era denominata Territorio fiduciario del Somaliland sotto l'amministrazione italiana (AFIS)”.

Qualcosa di questo evento mendica credenza e ci sono tornato in più di una storia: ho sentito il bisogno di parlare della situazione paradossale in cui si sono trovati quei somali che hanno combattuto per l'indipendenza. È difficile sopportare il fatto che le Nazioni Unite, dimenticando allegramente le richieste di chi sostiene l'indipendenza e il diritto all'autogoverno dei somali, abbiano dato all'Italia – nazione colonizzatrice – mano libera nel guidare i somali nella creazione di uno Stato democratico, attraverso AFIS – un'istituzione piena di ex fascisti, nientemeno! 
A un esame più attento, anche noi somali non siamo estranei a certi traslochi. Prendiamo il caso dello scontro sulla indizione di elezioni politiche sulla legge elettorale 4.5, attualmente in vigore a discapito della legge basata sul principio “una persona, un voto”. Purtroppo ho notato che, per quanto ne so, questo scontro non ha portato alla consapevolezza che la legge 4.5 sia una mela avvelenata da un determinato momento:

“...alla fine del colonialismo nella fretta di stabilire uno stato democratico per raggiungere l'indipendenza. Fu un processo in cui i colonialisti ei loro collaboratori furono pesantemente coinvolti. Il risultato finale è stato un tale miscuglio che non ha nemmeno contemplato un censimento o alcun tentativo di modernizzare gli strumenti che tradizionalmente regolavano il conflitto. Le forze indipendentiste hanno approvato il progetto per sbarazzarsi dei colonialisti” 

L'amnesia, quindi, non riguarda solo i governi di paesi come l'Italia, che occupava il Corno d'Africa, ma anche istituzioni come le Nazioni Unite, per non parlare delle persone dello stesso Corno d'Africa, nel nostro caso i somali. Quindi, un dialogo aperto con cui affrontare questi “vuoti di memoria” e/o riformulazioni non può che essere positivo e utile.


Domanda 2 
"Le moderne nazioni postcoloniali - secondo alcuni studiosi come Partha Chatterjee (1993) - assomiglierebbero a una seconda copia della grande nazione europea e, in tal modo, rappresenterebbero gli spazi più idonei per la realizzazione della sua scopi”. Cosa ne pensi? Come interpreta questa affermazione? Lo condividi? Se sì, perché? Se no, perché? 


Nel caso somalo, ad esempio, la spinta alla disarticolazione del sistema degli Stati nazione, causata dalla globalizzazione e dalla guerra civile del 1991, è un contesto sociostorico molto diverso da quello in cui si sono formate le grandi nazioni europee. La separazione dei poteri è un elemento integrante della forma nazionale che si è formata da lungo tempo in Europa, mentre in Somalia, a causa del conflitto non ancora definitivamente concluso, può essere meno chiara, o assumere una forma “anomala”. Nel mio articolo “Cambio d'abito” ho cercato di spiegare il mio punto di vista sul ruolo delle donne somale in questo contesto complicato.

“In assenza dello Stato e in presenza della violenza dei signori della guerra, in mezzo al caos, le donne in Somalia desideravano la “legge”, la sharia. Quando “Somaliness” – il tessuto reale e metaforico che teneva unita la popolazione – è stato lacerato, credo che le donne abbiano messo questo nuovo vestito tra i loro corpi e la violenza. Allo stesso tempo, hanno trovato nella religione un nuovo contenitore di identità comune, che andava oltre le divisioni di clan”. 

È chiaro che la religione è centrale, non solo per tenere uniti i somali come popolo – come nazione – ma anche in quello che dovrebbe essere l'obiettivo di uno Stato che riesca ad essere democratico. Qui si pone la questione della democrazia nel suo ruolo di garantire la sicurezza di tutti i suoi cittadini e, quindi, anche delle donne. Solo la tutela dei diritti può impedire alle donne di essere in balia degli abusi della milizia. E i somali, come altri popoli, stanno percorrendo quelle che ritengo essere strade non battute e non posso escludere, anzi mi auguro, che a loro modo a destinazione diventino una nazione democratica, senza diventare una copia delle grandi nazioni europee. È necessario esplorare nuove strade per raggiungere un obiettivo così difficile in poco tempo.


Domanda 3 
Per quanto riguarda l'identità: cosa ne pensi di quella linea di studi controversa (cioè Homi K. Bhabha in The Location of Culture del 1994 usa concetti come mimetismo, interstizio, ibridità e liminalità per sostenere che la produzione culturale è sempre più produttiva dove è più ambivalente), in cui si parla di processi culturali di ibridazione in cui colonizzato e colonizzatore sono coinvolti come processi talvolta anche fertili? Potresti forse fare degli esempi? 

Cercherò di partire con un esempio tratto da un mio racconto pubblicato in una raccolta intitolata Fra-intendimenti. La storia inizia così:

“Le quattro di notte, per il mondo in generale, o le dieci di sera per chi ha l'onore di essere di Mogadiscio. Succede quello che normalmente accade nelle case dove vive almeno un somalo: il telefono squilla […] 
Mi strofino gli occhi, guardo l'orologio e dico: "Che ore sono?" poi, a me stesso: “Oh Signore! Sono le dieci di sera!»
Il signor F. interviene con la voce rilassata di uno che fa sempre a modo suo. Mi ha corretto dicendo: “Quattro, quattro”.
In Somalia una ragazza del clan Hawiye avrebbe detto le dieci, una Daarood avrebbe detto le quattro (proprio come qui in Italia). Dato che sono un Daarood cresciuto circondato da Hawiyes, posso usare entrambe le forme; quindi sono d'accordo con lui, ripetendo: “Quattro, quattro”. 


Quindi questo personaggio, una donna somala che si è trasferita in Italia per ricominciare, ha un doppio sistema di misurazione del tempo. Man mano che la storia procede, la protagonista dimentica di regolare l'orologio ed è sorpresa di vedere che la banca è ancora chiusa, quindi con il passaggio all'ora europea la complessità è aumentata e il sistema di misurazione spazio-temporale della nostra protagonista non è solo binario, come Bhabha ci insegna, ma triplo: due volte somale e una italiana.

Per me, questi sono elementi di complessità che nelle mie storie di solito metto a confronto con gli stereotipi semplificatori che vengono proiettati sugli immigrati nelle società in cui arrivano; stereotipi che, del resto, hanno spesso le loro radici nel colonialismo. Ma sono anche un modo per condividere la possibilità che gli immigrati provenienti dalla stessa area di origine possano avere diversi referenti spazio-temporali e il fatto che tre sistemi temporali possono coesistere in una persona, dove l'acquisizione di uno non implica la cancellazione di altro. L'acquisizione della conoscenza non è somma-zero. Ma cosa succede quando i personaggi provengono da luoghi diversi? In un'altra storia, in cui ci sono tre persone – un interprete, un funzionario pubblico e un'anziana richiedente asilo – la situazione è ancora un'altra. Sebbene l'anziana donna voglia entrare a far parte della società ospitante con uguali diritti e doveri, difende ferocemente le sue norme culturali e comportamentali senza muoversi di un centimetro durante l'intera storia. Il funzionario, da parte sua, si attiene alle rigide regole dei suoi referenti spazio-temporali nel suo ruolo di capo ufficio. La grettezza di questi due personaggi fa apparire superflua la presenza dell'interprete e nel racconto l'interprete diventa anche un terzo spazio in cui confluiscono le ambivalenze. Descrivere una situazione del genere come autore mi offre il modo di raccontare ai miei lettori uno dei tanti conflitti, in questo caso tra uguaglianze e differenze che emergono già all'arrivo degli immigrati. In quanto richiedente asilo, l'anziana deve essere trattata secondo i criteri universali dell'Uguaglianza, ma d'altra parte, come paladina di una determinata cultura, vuole e ha diritto al rispetto della sua differenza; non è disposta a conformarsi: 

“La dinamica del 'gioco': il Sig. D. (il funzionario) fa domande, le traduco per la signora che poi risponderà e tradurrò per il Sig. D.
Entrambi iniziano a parlarmi contemporaneamente. Un ottimo inizio di giornata!
Chiedo al funzionario se gli dispiacerebbe se ascoltassi la signora. Un po' irritato, è d'accordo. Dopo una breve introduzione, le interviste iniziano sempre con le sue domande, è lui l'attore protagonista su questo palco.
La signora: Mia cara ragazza, chi è quest'uomo? Tuo marito?
Io no.
Il funzionario: Cosa sta dicendo?
Io: Vuole sapere chi siamo.
Il funzionario: Le dica che faccio io le domande. Quanti anni ha lei?
Nella mia parte del mondo bisogna salutare a lungo gli anziani e solo loro possono fare domande tanto per cominciare. La mia signora non fa eccezioni. Infatti: "Se non è tuo marito, cosa ci fai in questa stanza con lui?"  


La storia continua così per tutto il tempo, con i due relatori principali che non si incontrano mai. Ma come autore, attraverso alcuni elementi strutturali del mio modo di scrivere, faccio l'ennesimo gioco; oltre alla spiegazione della complessità e all'introduzione dei lettori alle diversità culturali di cui ho parlato, la stessa struttura narrativa – attraverso il discorso diretto, le esitazioni, le domande, i commenti metanarrativi e i dubbi – rompe rigide barriere identitarie e cerca di stimolare i lettori ad agire per costruire un mondo, una casa, in cui la disponibilità all'ascolto sia condizione necessaria per l'inclusione.


Domanda 4 

Usando il concetto, caro a noi psicoanalisti, di Nachträglichkeit, cosa potremmo pensare del postcolonialismo? Dove si riferisce questo "post-" a un dopo, a un evento successivo che, tuttavia, implica un prima che "non era (ancora) accaduto"? Avrebbe ragione J. André quando osserva che "L'après-coup è un trauma, e se non è semplice ripetizione è perché contiene elementi di significazione che aprono, a condizione di incontrare un ascolto e un'interpretazione, su una trasformazione del passato"? Se ritieni che questa domanda possa avere un senso per 'pensare' al postcolonialismo, quale sarebbe secondo te l'ascolto e l'interpretazione necessari in termini politici e geografici?


Ovviamente, il post colonialismo non ha lo stesso significato per i colonizzati e per i colonizzatori. Per questi ultimi, almeno per la maggior parte, il passato è visto con colpa, una serie di azioni non più giustificabili, ma che all'epoca non trovavano ostacolo, se non in piccole nicchie dell'opinione pubblica e/o nella caso di aspetti particolarmente abominevoli (come la tratta degli schiavi). Dovrei appartenere ai postcoloniali – agli ex colonizzati – eppure questa prospettiva è stupefacente perché non è mia, se non di riflesso. In effetti, appartengo alla generazione del periodo di indipendenza, la cui prospettiva principale era il futuro. Per noi il trauma del colonialismo, come offesa e non come responsabilità, è stato alleggerito in particolare dalla prospettiva del futuro, che ha coinciso in una fase con il “futuro socialista radioso”. È stata una formidabile operazione culturale che ha affrontato il recente passato coloniale e contemporaneamente recuperato tempi precedenti o coloniali, rivalutando modi di convivenza, culture e tradizioni che hanno fatto la nostra storia. Un nuovo modo di guardare alle proprie origini per vedere il futuro sotto una nuova luce.

Così, da ragazzina, nel mio libro di geografia, Dhig and Lool, i rami che componevano la struttura delle capanne dei nomadi prendevano i nomi dei meridiani e dei paralleli della Terra (la Terra è la nostra casa, dopotutto). Allo stesso modo nei libri di storia, l'eroe non è apparso come Mad Mullah, il pazzo fanatico, come avrebbero voluto gli inglesi (l'Impero), ma come Sayid Mohamed Abdille Hassan. Mohamed Abdille Hassan si è distinto anche in letteratura, come uno dei più importanti poeti del 1900 in Somalia. Le sue poesie erano pura propaganda contro gli invasori colonialisti, nonché uno strumento per comprendere le ragioni delle sue battaglie. Tuttavia, erano anche un modo per conoscere la vastità, la ricchezza e la bellezza della lingua somala.

Abbiamo dovuto studiare le sue poesie e ce n'era una in particolare che dovevamo conoscere a memoria: quella sulla battaglia di Dhul Madoobe. La poesia è dedicata agli uomini darwii del suo esercito caduti prima della vittoria contro gli inglesi, guidati da Richard Conyngham Corfield, uccisi in battaglia. In questa occasione Sayid scrive una poesia che è un autentico e dettagliato resoconto della vittoria in cui delega all'ufficiale inglese “il dovere” di informare i gloriosi darwiish che riposano nell'aldilà.

Mentre si costruiva un passato per progettare un futuro, il colonialismo era naturalmente presente ovunque, anche fisicamente: negativamente, ad esempio nelle città, negli edifici dei colonizzatori, positivamente nelle statue degli eroi dell'indipendenza come quella di Sayid. La statua di Sayid – l'insegnante, la guida, bastava dire Sayid e assolutamente tutti, anche coloro i cui antenati aveva depredato e ucciso, pensavano a lui – stava lì sul suo piedistallo, nel “nuovo” centro cittadino, a restituire dignità e onore e rappresentare i valori che portano alla rinascita. Poi c'è stata la caduta, preceduta da un'altra caduta, la dittatura, che le ha aperto la strada. C'è stata una caduta, un bagno di sangue condotto dai signori della guerra che, per reprimere la dittatura, hanno dato inizio a una guerra civile che come un'inondazione ha spazzato via, tra le altre cose, la nostra Storia Condivisa. Nel 1991, all'inizio della guerra, una massa di civili, “il popolo”, attaccò la statua di Sayid, riducendola a ferraglia e vendendola a qualche bastardo...! Per queste persone, l'anticolonialismo e, d'altra parte, il colonialismo evidentemente non significavano nulla o almeno non erano la loro priorità.

Gli attuali tentativi di ricostruzione del fragile nuovo Stato federale sono piuttosto incerti: basti pensare alla disputa in corso tra governo centrale e regioni, che lascia in mare l'intero Paese. Tra le tempeste del clan e dei loro alleati più grossi, la statua di Sayid riappare nello stesso posto che era stato lasciato vuoto per tutti questi anni! Cosa significa? Come sono riusciti trent'anni di violenza e di guerra civile a riempire quel vuoto? In che modo la violenza costante e quotidiana ha riscritto le nostre storie e ciò che siamo diventati?

È chiaro che dobbiamo prestare attenzione e ascoltare queste domande alla luce di tutto ciò che è accaduto dopo l'indipendenza.

Quindi, più che postcoloniale, mi definirei una donna post-indipendenza, che ascolta con curiosità ed è aperta all'interpretazione, ma soprattutto alla ricerca di una bussola.


Domanda 5
 “Dato che trattano principalmente la complessa questione dell'alterità, gli studi (post)coloniali spesso si incrociano con gli studi sulle donne, soprattutto nell'area della convergenza delle questioni razziali e di genere. Questi studi parlano della doppia subordinazione delle donne: qual è il tuo punto di vista?”


Ho scritto e scrivo di subordinazione perché credo che sia una questione sociale e politica importante che non possiamo evitare di considerare. Nei miei racconti ci sono personaggi femminili che si trovano in una situazione in cui sono sottoposti a vari tipi di subordinazione, non solo doppie ma anche triple o multiple: reddito, status, etnia, colore della pelle solo per citarne alcuni. Inoltre, non è raro che tutti pesino sulle spalle di una sola donna. Ci sono momenti nei miei scritti, considerando la questione della subordinazione delle donne, in cui cerco di proporre scenari alternativi in ​​cui gli elementi considerati dagli stereotipi della società ospitante come simboli della subordinazione delle donne non sono niente del genere per la le stesse donne subordinate; sembrano infatti essere elementi che li completano e conferiscono loro dignità:

“Aisha ha cambiato stile: ora indossa l'hijab. Fa parte di una grande comunità londinese, la comunità musulmana. Quando era appena arrivata a Londra, essere solo una povera vedova rifugiata con sei figli era troppo forte per lei. Preferiva aggiungere alle altre cose che le appartenevano qualcosa che le desse dignità e forza. Con un velo e un bellissimo vestito nero lungo, varcò la porta principale della ummah. Ora è una donna musulmana con un passaporto forte”. 

Aisha è una donna somala che, come tante altre, è scappata dai conflitti e, una volta in Gran Bretagna, acquisisce un passaporto britannico. Ma, per appartenere a pieno titolo alla comunità britannica, vuole l'inclusione di alcuni elementi che sono fondamentali per la sua identità, tra i quali la religione è certamente importante. La sua “differenza” che richiede riconoscimento si manifesta in una veste di grande significato simbolico: l'hijab. Indossare questo velo è un “manifesto” della propria sfida alla subordinazione. Cerco di concentrarmi sulla subordinazione nella sua complessità e quindi mi piace mostrarne la varietà. E non è tutto. Ritengo sia importante richiamare l'attenzione anche su coloro che sono dall'altra parte della relazione che è la subordinazione, il non subordinato.

"Nero. In altre parole, nessun colore. A quanto pare chiunque può decidere di che colore dipingere sul nero. Il camionista mi dipinge di colore da prostituta. Una femminista illuminista, una di quelle che vogliono liberare le donne che pensano siano in assoluta povertà, mi aveva dipinto come una ragazza soggiogata dagli uomini delle mie parti e che, ovviamente, aveva urgente bisogno del suo aiuto. Non eravamo amici. Il suo aiuto era dettato dai miei bisogni impellenti, come li immaginava. Non c'era modo di collaborare con lei. Voleva a tutti i costi parlare di quanto fossero terribili gli uomini delle mie parti. Avevo bisogno di un alleato e in silenzio mi resi conto che non era possibile suonare un duetto o concordare il peso e la priorità da assegnare ai problemi di un'ipotetica agenda che non poteva che essere il colore del Blues. Qualche ragazzo di sinistra, non ancora deluso, mi ha dipinto il colore di chi ha sempre ragione, privandomi insieme di tutti i colori di una persona che sa scegliere e agire liberamente; non mi ha lasciato il rischio che si corre quando si sceglie: quello di sbagliare”. 

Come si può vedere in questo brano tratto dal racconto Il nonno Y. e i colori degli alleati, ci sono tre personaggi che rappresentano tre categorie eterogenee: un camionista, una “femminista illuminista” e qualche “ragazzo di sinistra, non ancora disilluso ”. Ognuno di loro cade, a suo modo, nella trappola delle generalizzazioni. Per me il camionista ha la funzione di segnalare la presenza di fantasmi creati dalla connotazione erotica e sessuale che la propaganda coloniale ha dato in passato all'Africa, mentre gli altri due, appiattendo le donne in esseri subordinati unidimensionali, non fanno altro che derubali di tutte le altre identità che le donne nere riescono a raccogliere dentro di sé. Mentre coloro che rimangono ciechi alla capacità con cui le donne si muovono nonostante il poco spazio di manovra in caso di subordinazione annegano nel nulla gli sforzi e la creatività delle donne di colore in quei tempi difficili.

Nel mio scritto cerco di non generalizzare e quindi il fatto che gli immigrati abbiano diversi referenti culturali o siano in stato di subordinazione non li rende immuni da pregiudizi; né tutti i membri delle società in cui arrivano gli immigrati, i “bianchi”, uomini o donne che siano, hanno queste percezioni generalizzate.

Inoltre, è importante prendere le distanze da quei discorsi che con pregiudizio, forse per giustificare altre subordinazione, rappresentano tutti i neri come malvagi. Infatti anche nel racconto Granddad Y. and the Colors of Allies, seguendo la stessa traiettoria di diversificazione, tra uomini neri della stessa cultura, cultura somala ad esempio, smentisco il comportamento di “superiorità” con cui sono caratterizzati gli uomini africani: tutti con la stessa mentalità e per di più una visione ottusa, patriarcale. Racconto uno scontro tra tre mentalità patriarcali sulla delicata questione se permettere o meno alle ragazze somale di frequentare la scuola italiana. Da un lato, abbiamo un gruppo di "pezzi grossi" somali conservatori e un funzionario dell'AFIS; dall'altra, a favore della scolarizzazione delle ragazze e del loro diritto allo studio, abbiamo il nonno Y. e il suo amico, spinti dal desiderio di accrescere la capacità delle donne di gestire più mondi, e non certo spinti dalla passione per assimilazione. Entrambi gli uomini sono eminenti membri della Somali Independence League contro il colonialismo. Nadia, invece, si diletta nell'assimilazione ed è inoltre opportunista e traditrice. È un personaggio di un'altra storia che prende il suo nome. Ci tengo a dire che do alle donne (e alle femmine, nel caso della protagonista di una favola che ho scritto io) caratteristiche diverse. Possono essere intelligenti, aggressivi, buoni e cattivi e forse tutte queste cose insieme. Ciò che li accomuna tutti è la determinazione e anche quando assecondano gli altri, si muovono in modo fieramente autonomo. Esistono perché li vedo e con i miei scritti invito chi in qualche modo non ha le lenti per vederli ad integrare il proprio sguardo. Presento complessità e diversità che contrasto con stereotipi semplificati, creati anche (o soprattutto) per giustificare la subordinazione.


Biografia
Kaha Mohamed Aden è nato a Mogadiscio. Vive a Pavia, in Italia, dal 1987. Si è laureata in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Pavia e ha conseguito un Master in Cooperazione allo Sviluppo presso la Scuola Universitaria di Studi Avanzati di Pavia (IUSS). 
Ha lavorato per il Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo).
Svolge diverse attività nel settore della mediazione culturale, affrontando temi quali l'immigrazione e l'interculturalità.
Nel 2001 scrive “I sogni delle extrasignore e le loro padrone” pubblicato nel libro La Serva Serve: le nuove forzate del lavoro domestico [La serva serve: le nuove schiave del lavoro domestico ] di Cristina Morini, Derive/Approdi.
Nel dicembre 2002 è stata insignita del Premio San Siro dal Comune di Pavia per la sua attività nel campo della mediazione interculturale.
Nel 2015 ha condotto il workshop di scrittura al Thinking Festival Il pensiero è più necessario? (Festival del Pensare Pensare servono ancora?), da cui è uscita la pubblicazione Fil Rouge, edizione Festival del Pensare, Cecina.
Nel 2016 è stata invitata dall'Australasian Center for Italian Studies (ACIS), a tenere una serie di conferenze: per l'occasione è stata nominata Visiting HRA – Honorary Research Associate.
Ha scritto per diverse riviste, tra cui: Nuovi Argomenti, N.27, 2004; Psiche, N.1, 2008, Incontri, Rivista Europea di Studi Italiani, Vol. 32, N. 2, 2017.
Collabora con la rivista Africa e Mediterraneo, nella quale ha pubblicato “Nabad iyo Caano. Pace e Latte, N.81, 2/14, “Cambio d'abito”, N..86, 1/17 e “Un felice goffo volo dallo Yaya Centre”, N.92-93, 12/20. Ha creato la performance La Quarta Via (2004), da cui è tratto il documentario omonimo. https://www.openddb.it/film/la-quarta-via/
Nel 2010 ha pubblicato Fra-intendimenti (Nottetempo) e nel 2019 Dalmar. La disfavola degli elefanti (Unicopli).